Baudelaire è un poeta difficile da racchiudere in formule, non perché la sua opera sia sfuggente, ma perché varia e complessa, densa di significati e ricca di echi profondi. Con un'immagine molto efficace, Michel Butor l'ha definito "il perno attorno a cui la poesia ruota per diventare moderna". "Io voglio illuminare le cose con il mio spirito e proiettarne i riflessi sugli altri spiriti": le "cose" baudelairiane non sono solo gli oggetti poetici tradizionali, ma nuove dimensioni di realtà aperte dalla rivoluzione borghese e industriale, come la realtà urbana, il disadattamento, il vizio e la malattia, che con potente naturalezza il poeta sa comporre in un tessuto di musicalità e ritmo straordinari.
Ispirato dal «fascino quasi fraterno» di Poe e dalle personali esperienze con gli allucinogeni, Baudelaire affida ai "Paradisi artificiali" le sue riflessioni sul rapporto tra la creazione artistica e le droghe, considerate «mezzi di moltiplicazione dell'individualità». L'opera raccoglie il saggio "Del vino e dell'hascisc" (1851) e gli scritti, apparsi tra il 1858 e il 1860, "Il poema dell'hascisc" e "Un mangiatore d'oppio", quest'ultimo traduzione ed esegesi delle "Confessioni di un mangiatore d'oppio" di Thomas de Quincey. Attraverso queste sostanze che alterano la percezione, dilatano l'io, intensificano l'immaginazione creatrice e trasfigurano in modo fantasmagorico la realtà, l'uomo appaga il proprio «gusto per l'infinito» e cerca di sfuggire ai propri limiti, alla prigione del corpo, alla schiavitù del tempo. Ma di tutte le voluttà artificiali, l'unica davvero capace di aprire le porte del paradiso è la poesia, che traduce i geroglifici del mondo e coglie le sottili e misteriose corrispondenze della natura.
Ispirato dal «fascino quasi fraterno» di Poe e dalle personali esperienze con gli allucinogeni, Baudelaire affida ai "Paradisi artificiali" le sue riflessioni sul rapporto tra la creazione artistica e le droghe, considerate «mezzi di moltiplicazione dell'individualità». L'opera raccoglie il saggio "Del vino e dell'hascisc" (1851) e gli scritti, apparsi tra il 1858 e il 1860, "Il poema dell'hascisc" e "Un mangiatore d'oppio", quest'ultimo traduzione ed esegesi delle "Confessioni di un mangiatore d'oppio" di Thomas de Quincey. Attraverso queste sostanze che alterano la percezione, dilatano l'io, intensificano l'immaginazione creatrice e trasfigurano in modo fantasmagorico la realtà, l'uomo appaga il proprio «gusto per l'infinito» e cerca di sfuggire ai propri limiti, alla prigione del corpo, alla schiavitù del tempo. Ma di tutte le voluttà artificiali, l'unica davvero capace di aprire le porte del paradiso è la poesia, che traduce i geroglifici del mondo e coglie le sottili e misteriose corrispondenze della natura.