Agli inizi del Novecento, l'epoca dell'ansia e dell'incertezza, Pirandello ha rifondato il teatro spostandolo dalla classica, didascalica rappresentazione del mondo a un "teatro nel teatro" in cui drammaturgo, attori e perfino spettatori abbandonano ruoli e significato tradizionali trasformandosi in entità fluide, sfocate, in un relativismo che muta anch'esso indefinitamente. È un gioco di molteplici specchi che mostrano una realtà sempre diversa di sé, degli altri e del riflesso di sé negli altri: il teatro torna a essere una rappresentazione della vita ma solo in quanto la vita stessa è "una, nessuna e centomila", un palcoscenico in cui ogni personaggio cerca un autore, dove si recita a soggetto e nulla è definito, una «mascherata, continua, d'ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontarii». Pirandellianamente, così, la scena torna a essere per paradosso il theatrum mundi, ma solo in quanto "teatro" e "mondo" sono due facce indissolubili: ciascuna è l'illusione di se stessa e dell'altra; si torna al passato, ma solo come estrema, diabolica finzione.
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